E’ mio dovere aggiungere ed integrare gli appunti su Palazzo parlando di coloro cui sono state intitolate un Piazza ed una scuola del paese, perché i giovani sappiano chi sono stati e che cosa hanno fatto questi personaggi per meritarsi tale onore.
Il 31 ottobre 1897 chiudeva la sua vita terrena, all’età di 76 anni, il Cav. Uff. Camillo d’Errico, Sindaco da oltre trent’anni. Egli era nato qui il 16 Febbraio 1821 e dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza nell’ Università di Napoli si era ritirato nel paese natio dedicandosi all’amministrazione del suo patrimonio ed a quella del paese, lasciategli entrambi dal padre nel 1853. Ma per porre nella sua giusta luce la persona e le opere di Don Camillo d’Errico, è necessario dare uno sguardo ai tempi nei quali egli visse ed alle vicende che la famiglia d’Errico attraversò, avendo essa buona parte della storia della Basilicata e del Regno delle Due Sicilie.
Inizieremo quindi dal 1793 con gli influssi che la Rivoluzione Francese ebbe anche nell’ Italia Meridionale. Era allora Giudice di pace, qui in Palazzo, Don Giuseppe d’Errico che, quando nel 1799 costituitosi con suffraggio pubblico il Municipio, fu dal popolo eletto Presidente (Sindaco) della Comunità facente parte della Repubblica Romana e di quelle Cispadane e Cisalpina per voler di Napoleone. Ma partito Napoleone per l’impresa di Egitto, l’estromissione dei Francesi dall’Italia ad opera degli Austriaci provocò il crollo delle Giovani Repubbliche e la Reazione guidata dal Cardinale Ruffo nel 1800 colpì il Presidente e gli altri cittadini inviati a fare atto di sottomissione al Cardinale : essi furono arrestati e rinchiusi nel carcere di Melfi come rei di Stato. I cosiddetti “Giacobini” furono perseguitati con mille angherie ed un tale Alberto Barbacovi da Trento venne linciato per le strade di Palazzo nella controrivoluzione scoppiata violenta e animata dal Clero e dai nobili retrivi. Fu solo nel marzo 1801 che, ritornata la dominazione Francese, accolta con entusiasmo come liberatrice degli Austriaci, che si aprirono le carceri di Napoli ed i detenuti politici riebbero la libertà, sia pure con la esclusione dai pubblici impieghi perché “fedifraghi”. Don Giuseppe d’Errico, ritornato a casa si occupò di questioni legali nelle quali era esperto, cercando di contrastare le azioni illegali, arbitrarie e vessatorie che compivano frequentemente i Miliziotti della dogana di Foggia e gli sgherri del Marchese di Genzano, difendendo validamente gli oppressi nei tribunali: e per questo fu ucciso a tradimento sotto l’arco del Purgatorio nel Giugno 1802!Il più grande dei suoi figli, Don Agostino, aveva allora 13 anni fu lui che, nel ricordo del Padre, ne continuò l’opera in favore del popolo di Palazzo quando nel 1809 si arruolò nella Milizia Civica per combattere le orde di briganti che infestavano tutto il territorio meridionale. Gia nel 1806 Giuseppe Napoleone diventato Re di Napoli, aveva abolito tutti i privilegi feudali e chi era stato fin’allora testimone e imponente spettatore dei soprusi e delle rappresaglie degli Agenti e Sgherri Baronali, esultava nel vedere la fine degli orrori e non poteva non plaudire al nuovo Regime. E Don Agostino, dopo cinque anni trascorsi a Potenza quale Funzionario del Governo, divenne supplente Giudice di Pace in Palazzo e per dieci anno si adoperò per mantenere l’ordine pubblico ed applicare la giustizia contro malfattori e delinquenti che insidiavano la tranquillità del paese. Si adoperò tenacemente perché venissero attuate le leggi del 1808 e del 1810 per la distribuzione delle terre del Demanio Feudale ed ecclesiastico ai proletari del paese, ma invano potè ottenere che vi fossero comprese le Tenute “Casaleni e Castellani” che, corruzione di alcuni testimoni, rimasero in possesso del Marchese di Genzano. Nominato Giudice titolare, Don Agostino perseguì meglio i malfattori e ne distrusse le bande facendone condannare alla decapitazione la cui esecuzione avvenne in pubblico sulla spi-anata di S. Rocco. Eletto Sindaco e Deputato Provinciale nel 1820, fu nominato Capitano delle Legioni Circondariale della Guardi Civica e prese parte il 1821 agli scontri in Abruzzo contro le truppe Austriache, scese in aiuto del Re Ferdinando I° il quale, dopo aver concesso la Costituzione nel Luglio 1820, l’abrogava pochi mesi dopo. Come Sindaco fece costruire il Camposanto di cui il paese era sprovvisto, quella strada alberata che ancor oggi porta a Spinazzola con il ponte sul Basentello, restaurò le strade secondarie, abbellì le fontane pubbliche, lastricò a selci le strade principali dell’abitato e spesso anticipando di tasca propria i fondi occorrenti alle opere. Intanto le alterne vicende del Piemonte, messosi alla testa del movimento indipendentista d’ Italia contro l’Austria, avevano pesanti riflessi sulla vita politica della Basilicata. La famiglia d’Errico occupava con i 4 fratelli un posto preminente nella vita pubblica della Regione.
Don Agostino era considerato il liberale capo dei Carbonari e della Giovane Italia;
Don Vincenzo, Deputato al Parlamento Napoletano e Presidente del Circolo Lucano era fra i capi del Movimento Anti-Borbonico;
Don Giuseppe, era Conservatore delle Ipoteche della Basilicata;
Don Michele era Direttore delle Finanze in Potenza.
Se la I^ Guerra di indipendenza del 1848 aveva risvegliato tutte le speranze dei patrioti lucani, la sconfitta della 2^ Guerra nel 1849 portava alla soppressione delle libertà costituzionali in tutti gli Stati Italiani ed alla persecuzione di coloro che ormai apertamente lottavano per l’Unità d’Italia. Lunghi anni di carcere, proscrizione e condanne a morte ebbero i fratelli d’Errico si che il Don Vincenzo poté a stento riparare in Francia e di lì in Piemonte ove moriva, esule, nel 1855. Alla vittoriosa Guerra del 1859 seguiva la spedizione dei Mille e 1860 l’annessione del Regno di Napoli a quello d’Italia e nel primo Parlamento Italiano sedeva un d’Errico: Don Giuseppe d’Errico detto il “Romano” Architetto, cui si deve la costruzione della Ferrovia Foggia – Potenza. Terminava così un lungo periodo storico che aveva visto la famiglia d’Errico fra i protagonisti della storia del Meridione d’Italia e se sia leggenda o realtà la promessa di “due palle in corpo a Re Ferdinando” fatta da un d’Errico, come lo schiaffo che la 85enne madre degli incarcerati d’Errico avrebbe dato al Re nell’Abbazia della Trinità in Venosa nel 1851 per il rifiuto avuto alla domanda di grazia per i figli, non è dato sapere: esse mostrano solo a quale fama fosse giunto il nome dei d’Errico. Dell’anno 1861 si apriva quindi un lungo periodo di pace e di operosità per Don Camillo d’Errico il quale, educato in Napoli ed ivi laureatosi in Giurisprudenza, aveva vissuto intensamente 40 anni di vita politica nazionale seguendo il padre Don Agostino e lo Zio Don Vincenzo nell’ideale della Unità Italiana e nella lotta contro i retrogradi Re Borbone. Costretto spesso a fuggire per sottrarsi alle persecuzioni, implicato nella Giovane Italia, facendo da tramite con gli adepti napoletani e poi con lo Zio esule, aveva veduto accrescersi la fama familiare e la stima, l’affetto del paese natale. Eletto sindaco di palazzo, continuò le opere del padre, abbellì il paese, sovvenne di tasca propria ai bisogni dei più miseri specie nella stagione invernale aprendo loro i suoi granai, dotò il paese di illuminazione elettrica, uno dei primi in tutto il mezzogiorno, creò due maritagli in memoria del padre, portò il paese a quella fama che oggi lo fa annoverare fra i migliori della Lucania. Ma dove Egli volle operare se stesso fu nella creazione di una Pinacoteca ed una Biblioteca che sistemò nel proprio palazzo di abitazione. Per anni ed anni, mancando la ferrovia, inviava i suoi salariati a Napoli con i suoi traini per trasportare i quadri ed i libri che man mano andavano acquistando. Creò così una raccolta di circa 400 quadri e di circa 6000 libri che si compiacevano mostrare al pubblico e che alla sua morte, volle fosse eretta in Ente Morale perché durasse in perpetuo con il suo nome: per esse consumò parte del suo patrimonio, lasciando agli eredi il peso del suo mutuo fondiario da estinguere. Ma ahimè, oggi quasi più nulla ricorda l’uomo che tanto bene fece al paese: nient’altro che una lapide quasi illeggibile sulla facciata di casa, unico segno della munificenza di colui che con i suoi 1500 ettari aveva dato lavoro e pane a tutto un paese, che donava terreni al Municipio per i suoi bisogni, che sovveniva di tasca propria chiunque fosse bisognevole a lui si rivolgesse. Della sua bella Villa di S. Rocco, aperta al pubblico passeggio non resta neanche più il cancello di ingresso e della sua Pinacoteca e Biblioteca, trasferite a Matera, non vi è altro che il ricordo sfruttato a scopo elettorale.