(ACR) PALAZZO S.G. : IL “CARROZZO” TRA DIVERTIMENTO E NOSTALGIA
 
     
 

Palazzo San Gervasio in un caldo pomeriggio d’agosto sembrava un circuito di Formula Uno. Le strade cittadine erano piene di volontari della Protezione civile che sbarravano gli ingressi principali: stava per iniziare la “gara” e i livelli di sicurezza dovevano essere garantiti. Gara non di bolidi ipertecnologici, computerizzati, velocissimi e sfavillanti. Non di autovetture che bruciano centinaia di litri di benzina in un attimo. Né di monoposto che sgommano e inceneriscono pneumatici che durerebbero in condizioni normali anche una vita. Tutt’altro. Stavano per gareggiare i “carrozzi”:

tavole di legno su tre ruote che hanno per propulsore: una energica spinta o la pendenza del circuito; per pneumatici: cuscinetti a sfera di acciaio; per sterzo: una tavoletta fissata ad una estremità da un bullone con dado a rondella; per freni: un pezzo di legno da azionare a mano o un bel paio di scarpe, rotte, da sacrificare definitivamente e dignitosamente alla causa dei rifiuti utili.

E di certo, rispetto alle famose macchine che gareggiano su circuiti prestigiosi, avevano in comune, i carrozzi, il rumore infernale: i cuscinetti e le grida di giubilo dei ragazzi facevano la loro parte anche nelle orecchie degli attoniti spettatori.

Sugli spalti improvvisati, sulle dune affastellate di sterpaglie arse dal sole, sui parapetti e su davanzali non c’erano Vip, modelle famose né guest star di prestigio. C’era la gente comune, semplici e accaldati curiosi, bimbi felici e sorridenti, nostalgici di pomeriggi di mezza estate. Erano tutti belli e pronti per gustarsi la sfida.
Di sicuro, non ci sarebbe stata diretta televisiva né pay per view né telecronache appassionate e urlanti: tutto gratis sull’altare dell’attimo “fuggente”. Un bel passo indietro nel tempo e nei luoghi della memoria di una infanzia perduta o forse semplicemente abbandonata: cartolina dei ricordi, retorica e irresistibile.

Poi c’erano loro: giovanissimi e adulti che avevano passato un’intera estate a costruire la monoposto più affidabile, ma anche quella più bella da vedere. Agghindata con targhe, sponsor inventati o veri e mille altri accorgimenti. Ritornare bambini, ma di un tempo che fu e non potrà ripetersi. C’era una volta la strada che formava gli adolescenti al ritmo di giochi sociali i più disparati e divertenti. C’è oggi la playstation, i telefonini ultimi generazione, internet e la televisione a schermo ultrapiatto a fare la differenza del tempo e dei tempi. Il carrozzo sta proprio lì: a simboleggiare un punto di partenza e uno di arrivo, tra ieri e oggi, il passato e il presente, i ricordi e la nostalgia: basta una spinta e via.

Tradizione popolare che abbina il gioco all'ingegno. Antesignano e padre povero degli attuali skateboard e/o monopattini (tanto graditi dai giovani) che affascinò tante generazioni di ragazzi tra la fine degli anni '60 e i '70.

Grazie a un gruppo di palazzesi questo gioco ha rivissuto i suoi momenti migliori con una gara che ha coinvolto l'ingegno degli artigiani e la passione dei ragazzi. Ed è proprio sulla storia di questo veicolo che bisognerebbe aprire una parentesi. Anzi, ci sono pure scuole di pensiero e di ingegneria da non sottovalutare. C’è chi per esempio fa una distinzione storica nella meccanica, nella struttura e anche nei tempi storici di costruzione.

Alcuni affermano: “U’ carruzz (il carrozzo in palazzese, ndr) originariamente era costruito artigianalmente con un pezzo di tavola rettangolare sulla quale erano montate quattro ruote (due posteriori e due anteriori) mobili per sterzare, queste due venivano chiamate ruote di cannone. Le “ruote di cannone” venivano ricavate o smontate dalle slitte dei cannoni e servivano per attutire il contro colpo o rinculo durante lo sparo. Alla fine della prima guerra mondiale c’era tanta miseria e i nostri valorosi soldati ritornando a casa portavano con sé tutto ciò che ricavavano dai residui delle armi belliche. Il “costruttore” che non possedeva le due ruote di cannone ricavava (rubandole) le due carrucole che reggevano i cavi dell’abbassamento del passaggio a livello della ferrovia. U carruzz’ di “ultima generazione” veniva costruito con un pezzo di legno più largo e tre ruote (cuscinetti a sfera), due venivano montate posteriormente, la terza ruota era fissata sotto una striscia di legno montata perpendicolarmente alla tavola rettangolare: questa striscia di legno fungeva da sterzo che veniva manovrato sia con i piedi che con le mani.

Ma all’epoca du carruzz, di prima generazione, i cuscinetti non erano ancora stati inventati e sugli assi delle ruote venivano montate delle boccole chiamate bronzine. Inoltre, con quattro ruote il carrozzo era più stabile, con uno scorrimento più morbido in quanto le due ruote posteriori erano cerchiate da gomma (sifoncino). Lo sterzo era solo manuale. U carruzz’ , di seconda generazione, aveva uno scorrimento veloce, più pericoloso, con un’aderenza delle ruote più dura”. Questo è quanto la memoria storica ricorda. Ma questo antesignano del go-kart ha tante altre storie da raccontare. Non solo squisitamente locali, segno che quello del carrozzo è un gioco senza tempo e senza confini, e che propongono variazioni sul tema. Ad iniziare dal nome per poi finire a disquisire della struttura. In una ricerca storica, lo studioso della lingua napoletana, Luciano Galassi rileva: “Il carruoccio o carruócciolo, è una voce derivata dal latino medioevale carrocium, e viene definito da Antonio Altamura una ‘base di legno su quattro rotelle, sulla quale i ragazzi corrono per le discese delle strade’”. Francesco D’Ascoli lo descrive come un “carrettino formato di una tavola con quattro piccole ruote, di cui si servono i ragazzi per giocare”.

Anche Giuseppe Marotta, nel libro “L’oro di Napoli”, lo chiama “carrettino”, aggiungendo però che si dovrebbe - piuttosto - dire: “una tavoletta su quattro rotelle di legno duro, fisse le posteriori e obbedienti le altre ad un rudimentale sterzo comandato da due cordicelle che il guidatore impugna come rédini”. Pure per Bruno Amato ed Anna Pardo si tratta di un carrettino di legno, “le cui ruote sono costituite da quattro cuscinetti a sfera e la sbarra dello sterzo è controllata da una corda: una via di mezzo tra un rudimentale go-kart e un bob a due… I monelli più sofisticati hanno anche il lusso di un freno; per gli altri ci pensano i tacchi delle scarpe del guidatore”.

Recentemente Luciano Scateni ha ricordato come il carruòcciolo, nella primavera del 1956, fu rilanciato in seguito all’esperienza fatta con bob o slittini improvvisati (scale a pioli, scaletti in metallo ecc.) utilizzati nel febbraio dello stesso anno per uno specialissimo divertimento, del tutto inusuale dalle nostre parti, allorché in città ci fu una storica nevicata che consentì non solo di praticare lo sci metropolitano, ma anche di sfrecciare per tutte le discese di Napoli a bordo di quei siluri tutt’altro che omologabili. “In quella primavera, dunque, i ragazzi si diedero a costruire carruòccioli utilizzando con pazienza e perizia il materiale ligneo più disparato, tanto che non se ne sono mai visti due uguali fra loro: essi “mettevano assieme legno, assi di qualità approssimativamente accettabile, un perno, corda robusta e… quattro cuscinetti a sfera in attesa di smaltimento rifiuti, cioè scartati dai meccanici d’auto, ma adattissimi allo scopo. Il pianale del carruòcciolo da competizione nacque assemblando due o più assi di legno capaci di ospitare pilota e navigatore. Al di sotto furono sistemati i due mozzi su cui impiantare i cuscinetti a sfera, ovvero le ruote da gara. Sul lato anteriore, nel bel mezzo del ‘bolide’, un perno consentiva all’’avantreno’ di obbedire al manovratore nelle sterzate. Il navigatore, in vista di cozzi e sbandate, azionava i freni: due rettangoli di gomma dura premuti alla disperata sulle ruote (leggi cuscinetti) posteriori”. Quando il “congegno filante” poteva ritenersi pronto per essere lanciato sulle discese più spericolate, il costruttore - in mancanza di olio lubrificante - ne ungeva con sapone molle gli assi delle minuscole ruote, caricava due o tre compagni, sedeva sul pianale, si avvolgeva alle dita la cordicella di guida e si lanciava in corsa: nessuno però poteva giurare che avrebbe superato il collaudo dei cubetti di porfido emergenti dalla massicciata o di cunette insidiose o di altre asperità del percorso né si poteva sapere dove e come avrebbe arrestato la sua corsa”.

“Chi scrive queste note – continua il giornalista scrittore – conserva netta nella memoria la tensione dei muscoli tesi del conducente e l’allegra sovreccitazione dei trasportati sempre sul punto di essere sbalzati fuori; rammenta il fragore delle rotelle metalliche sulla strada a cui s’aggiungevano le grida di giubilo e d’entusiasmo degli scugnizzi in corsa, il vibrare dell’inaffidabile veicolo che sembrava doversi smembrare da un momento all’altro. Era uno spettacolo di destrezza con qualcosa di circense, che rimandava alla magìa dei “Gran Premi” automobilistici, a quei tempi esaltati da ‘assi’ del volante rispondenti ai nomi di Ascari, Fangio, Villoresi”.

Da altri punti di vista, il carrozzo palazzese è chiamato “carrattella”. Scrive Giovanni Visetti: “Prima di godere dell'emozione di lanciarsi in discesa su una carrettella nuova c'era un lungo lavoro da fare, ma anche questo faceva parte del divertimento e spesso diventava quasi un rito. Una volta che si fosse deciso di costruire una carrettella (da soli o con la collaborazione di qualcun altro), il primo impegno, per certi versi appassionante, era quello di cominciare a procurarsi tutti i pezzi principali. Questi ovviamente non venivano mai comprati, ma si dovevano andare a cercare fra le cose vecchie, farseli regalare da qualcuno o, tutt'al più, si barattavano con altri ragazzi in cambio di figurine di giocatori o cose simili. Gli elementi più difficili da recuperare di solito erano proprio i cuscinetti a sfere e talvolta capitava che per giorni e giorni si facesse inutilmente il giro delle officine dei meccanici della zona. Si doveva infatti attendere che questi cambiassero qualche rota 'e pallini e quindi avessero a disposizione quelle sostituite, che il più delle volte erano sballate”.

“Una tavola da usare come pianale si recuperava più facilmente, ma per trovare proprio quella giusta si doveva comunque girare un poco fra parenti, amici e puteche 'e masterascielli (botteghe di falegnami). In base a questi primi pezzi (la tavola e i cuscinetti a sfere) si dimensionavano poi tutti gli altri in quanto il diametro dei due assi dipendeva da quello dei cuscinetti e la loro lunghezza dalla larghezza del pianale. Anche la tavoletta di supporto allo sterzo era proporzionale al pianale e ovviamente il perno doveva essere di una lunghezza tale da attraversare asse anteriore e supporto e da lasciare sporgere almeno parte della filettatura”, precisa ancora Visetti. (M.C.)

Fonti:

  • “C’era una volta U’ Carruzz”, di Gerardo Liberatore, in Libero Accesso, Settembre 2007
  • “La storia del carrozzo”, di Antonio Simone, in Libero Accesso, Agosto 2008
  • “Il carruòcciolo”, di Luciano Galassi, in http://www.napoliontheroad.it/galassicarruocciolo.htm
  • “Barracca 'o Rutunniello, Cavallo Cavallo mantieneme 'ntuosto ed altri giochi dimenticati, di Giovanni Visetti, in http://www.massalubrense.it/giochi.htm
  • Palazzo San Gervasio: “La corsa cu carruzz!”

 
  Notizia proposta da: Consiglio Regionale